Primo Impiego

terno pioggia

NOTA EDITORIALE:

Questo breve racconto inaugura un nuovo spazio del Blog. Uno spazio dedicato ad alcuni racconti brevi (autore”@palloncinogrigio” da gustare nel tempo di un caffè (non ristretto). I racconti che seguiranno avranno tra loro un legame al pari degli anelli di una catena.

Il viaggio inizia…

Varese – Milano 196… – Autunno

Pioveva. Una pioggia fitta, uguale, che a volte una raffica improvvisa portava fin sotto la pensilina della Stazione Nord.

Qua e là l’acqua ristagnava lucida tra le traversine dei binari e tra i grossi ciottoli grigi, lisci e lucidi anch’essi come la pelle di una biscia.

Sull’ultimo binario, che a fatica si riusciva a scorgere tra le erbacce alte e incolte, sostavano due vecchi vagoni fuori uso, infangati e arrugginiti. Al di là, dietro un muretto mezzo sgretolato, si intravedeva la vecchia stazione delle corriere con i suoi quattro o cinque grandi platani: sui rami le poche ultime foglie gialle e rossastre tremavano sotto la pioggia battente, squallido avanzo di un autunno glorioso non ancora finito, ma già dimenticato.

Continuò a piovere anche quando il treno si mise in moto, prima piano, poi a scatti, sferragliando e traballando sempre più forte, man mano che la velocità aumentava.

Pietro entrò in uno scompartimento di seconda classe: un’aria greve, pregna di fumo di sigarette e di odore di abiti bagnati, lo investì senza lasciargli scampo.

Chiuse lo sportello e avanzò piano tra la gente: alcuni operai dall’aria assonnata, pochi impiegati ingessati in giacca e cravatta e molti studenti perché quella linea, in certi orari, era frequentata per lo più da giovani che si recavano alle Università della vicina Milano.

Pietro li osservò: ridevano e parlavano tra loro concitati. Fino a pochi mesi prima anche lui era uno studente spensierato.

Ora, evitando i compagni, andò a sedersi in fondo al vagone, accanto al finestrino, senza togliersi l’impermeabile tutto bagnato perché temeva di aver freddo. Già sentiva la pelle d’oca salirgli su per le gambe e le braccia. Un brivido lo percorse tutto. Strinse i pugni nelle tasche: odiava il freddo.

Per distrarsi immerse lo sguardo nella campagna che scorreva oltre il finestrino. Il vetro era appannato in più punti e cosparso di piccole gocce di pioggia, irregolari e lucenti come cristallini di strass.

Ora la pioggia era quasi cessata, ma di tanto in tanto una goccia più grossa batteva contro il finestrino e scivolava sul vetro, scodinzolando come un girino.

Pietro guardava senza pensare a nulla. Quando fu stanco di osservare i giochi della pioggia sul vetro, cominciò a pensare ai casi suoi e allora una tristezza così profonda, uno sconforto così insanabile lo colsero all’improvviso e quasi scoppiò a piangere. A stento si trattenne, ma dentro il suo cuore urlava.

Abbandonare l’Università al terzo anno, tutti gli esami superati, e superati brillantemente, lasciare gli studi di ingegneria intrapresi con tanto entusiasmo e profitto. Cercare un lavoro, uno qualsiasi con uno stipendio qualsiasi perché lui non valeva niente, non sapeva fare niente. A che gli servivano ora tanti anni di studi non portati a termine? Il latino, la filosofia e poi la trigonometria e le leggi della fisica. Sarebbe stato meglio che avesse studiato la contabilità e la partita doppia perché ora era quello che gli serviva sapere, quello era l’unico lavoro che aveva trovato.

E poi doveva fare i conti con quella avvilente sensazione di aver ricevuto una elemosina. Qualcuno, dopo la disgrazia, si era interessato a lui e lo aveva presentato al ragionier Costante B., capo contabile di una ditta di import-export con gli uffici a Milano, un uomo sulla quarantina dall’aria pulita e soddisfatta.

Il rag. Costante si era dimostrato comprensivo, gentile, ma distante, come chi ha cose ben più importanti da fare. Comunque gli aveva dato il posto.

Pietro conosceva di vista quell’uomo, anche lui abitava a Varese, qualche rara volta l’aveva intravisto prendere il suo stesso treno, però in prima classe, ma di norma i suoi orari erano diversi.

Altre volte gli pareva di averlo scorto sotto i portici di Varese, fermo accanto ad una colonna, intento a guardare il passeggio. Una delle tante, solite facce.

Ora quell’uomo sarebbe diventato il suo capoufficio, quell’uomo insignificante, roseo e paffuto come un neonato e lui, Pietro, sarebbe diventato il suo scrivano, il suo umile ed inetto scribacchino.

Dove erano finite le grandi opere che avrebbe voluto costruire? Ora bisognava nascondere i sogni di grandezza per non diventare ridicolo. C’è chi, anche nelle avversità, sa stare a galla e chi è destinato ad andare a fondo. Pietro si sentiva tra questi: in fondo l’aveva sempre saputo che all’occorrenza non avrebbe saputo nuotare. Allora meglio chiudere gli occhi e lasciarsi andare, trascinato dalla corrente, senza lottare.

L’azienda di famiglia un tempo florida, poi la crisi, il fallimento, il padre stroncato da un infarto, i debiti. La madre impietrita, incapace di reagire, la sorella troppo piccola, gli amici che, dopo gli abbracci pietosi, si erano defilati piano piano.

Oltre il finestrino continuava a sfilare la campagna fredda e inerte; le zolle, inzuppate d’acqua, giacevano rimosse, sventrate, gli alberi spogli levavano al cielo le loro nude braccia in una tacita preghiera. Lontano, dietri i campi, dietro gli alberi, case piccole e case grandi, casermoni della periferia della grande città che velocemente si stava avvicinando. Quella era la realtà che lo stava aspettando.

Quando giunse alla stazione di Milano riprese a piovere, una pioggia battente che si lanciava sulle lamiere dei vagoni e delle pensiline con gran fracasso, rimbalzando e scivolando giù in lucidi rigagnoli.

Pietro uscì sul piazzale e gli apparve la grande città che conosceva bene, ma ora gli parve diversa. Quando era studente, quella città convulsa, con i suoi cantieri, gli uffici di vetro e ferro rappresentava un mondo pieno di promesse. Ora gli sembrava un meccanismo sconosciuto e indifferente, peggio, ostile, di cui tra breve avrebbe fatto parte anche lui, ma senza orgoglio né piacere, solo una rotella, una delle tante, piccola e insignificante.

Davanti a lui, sul marciapiede, passò una coppia: due giovani camminavano vicini, spediti e leggeri, stretti sotto l’ombrello, ma pareva che sopra di loro splendesse il sole.

Pietro distolse lo sguardo e allungò il passo perché non voleva arrivare in ufficio in ritardo. Proprio il suo primo giorno di lavoro.

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