“Ai primi di settembre del 1664 cominciò a correre voce a Londra e anch’io ne intesi parlare nel mio quartiere, che in Olanda c’era di nuovo la peste…”
Così inizia il ”Journal of the Plague Year”, il Diario dell’Anno della Peste, scritto nel 1722 da Daniel Defoe, giornalista e scrittore inglese, autore di “Robinson Crusoe” e “Moll Flanders”.
Quando scoppiò quella terribile epidemia che cambiò il volto di Londra e passò alla storia come “la grande peste”, Defoe aveva solo 5 anni e quindi è ipotizzabile che ne conservasse solo un vago ricordo. Ma accadde qualcosa, nel 1721, che forse ne riportò alla luce qualche frammento, se non altro quello di ciò che avrà sentito in seguito raccontare in famiglia.
Nel 1720, infatti, in Francia scoppiò un’altra epidemia, che fortunatamente però fu contenuta sia come diffusione che come numero di morti. Tuttavia inizialmente questo fatto suscitò una grande impressione ed apprensione negli Inglesi, per il timore che il nuovo contagio potesse dilagare e raggiungere il loro paese.
Sull’onda emotiva di questa paura collettiva, ma anche, e forse soprattutto, per la necessità sempre presente di guadagnare per sanare la sua precaria situazione economica, Defoe scrisse il Diario della peste di Londra del 1665. Prima di analizzare l’opera è necessario illustrarne il quadro storico e i terribili avvenimenti che sono l’oggetto della narrazione.
La Grande Peste di Londra
La peste è stata, in passato, una malattia piuttosto diffusa. Oltre alle molte epidemie che la storia riporta fin dall’antichità, sporadicamente si verificavamo episodi, certamente causati dalla mancanza di norme igieniche appropriate, che per fortuna rimanevano limitati.
Nell’autunno del 1664 a Londra si ebbero alcuni casi di peste bubbonica, causata, come si capì solo molto più tardi, dai topi sbarcati dalle navi provenienti dall’Olanda che trasportavano balle di cotone. L’inverno seguente fu molto freddo questo limitò la diffusione del contagio, ma la primavera e soprattutto l’estate seguente furono molto calde e ciò provocò la catastrofe. In breve il morbo si diffuse in maniera incontrollabile. Le zone inizialmente più colpite furono ovviamente le zone più povere, quelle dove già normalmente la vita era precaria e l’igiene assolutamente inesistente. Le cronache riportano che già prima dell’epidemia, le strade dei quartieri popolari erano sporche, ingombre di rifiuti, vere e proprie fogne a cielo aperto. L’aria di conseguenza era irrespirabile e in questo ambiente degradato i pochi ratti scesi dalle navi trovarono il loro habitat ideale, crescendo così di numero. Il loro proliferare fu favorito anche dal fatto che in città non c’erano più cani e gatti, loro naturali nemici, perché furono tutti sterminati nel timore che contribuissero alla diffusione del morbo. Il contagio quindi si estese a tutta la città e al circondario, spingendosi fino alla zona di Cambridge.
Dal mese di dicembre del 1664 le autorità cominciarono ad annotare tutti i decessi su un libro che chiamarono Bills of mortality. Alla fine il numero dei morti ufficialmente riconosciuti fu di circa 70 mila, ma tutti concordano nel dire che la cifra più probabile si aggira intorno ai 100 mila. Non c’erano cure per gli ammalati.

Bills of Mortality
Si riteneva che la causa del male fossero gas velenosi che si trovavano nell’aria (le persone più religiose che si trattasse di un castigo divino) e che le sostanze aromatiche potessero contrastare i vapori letali. Così le autorità ordinarono di bruciare per le strade torce profumate e di spargere spezie, come il pepe. Fu consigliato anche l’uso di tabacco ritenendo che possedesse particolari proprietà antisettiche e purificanti. A questo proposito è interessante notare come l’uso intenso del tabacco in questo periodo, determinò un aumento del suo consumo anche successivamente e ciò produsse un notevole incremento della sua produzione generando un mercato molto fiorente.
Le misure di contenimento
“Ogni casa infetta dovrà essere contrassegnata da una croce rossa lunga trenta centimetri, al centro della porta, ben visibile, assieme alla scritta “O signore, abbi pietà di noi”, proprio sopra la croce, e fino alla riapertura legale di quella casa”.
Questa era una delle tante disposizioni emanate: le famiglie in cui c’era un ammalato dovevano rimanere chiuse in casa. Ogni sera un carro passava a prendere i morti. Non c’erano solo i morti per la peste, molti, non sopportando gli atroci dolori causati dai bubboni, si toglievano la vita certi ormai di essere condannati. Pochissime persone si prendevano cura degli infermi, anche perché la maggior parte dei medici avevano lasciato Londra per raggiungere altre città o tranquilli luoghi di campagna lontani dalla capitale. Così avevano fatto anche tutte le famiglie ricche e nobili e lo stesso Re, Carlo II, che si era trasferito con la corte a Oxford.

Isaac Newton
Tra gli sfollati c’era anche un giovane scienziato di 24 anni, che era appena stato nominato Bachelor of Arts all’università di Cambridge. Dato che l’università era stata chiusa per l’epidemia, il giovane si era trasferito in campagna, nella sua tenuta di Woolsthorpe e qui, in totale isolamento si era dedicato completamente ai suoi studi, quelli che l’avrebbero portato ad enunciare la famosa teoria gravitazionale. Parliamo, è ovvio, di Isaac Newton il quale, come racconta il celebre aneddoto ebbe l’intuizione mentre studiava nel suo giardino, avendo osservato una mela che cadeva spontaneamente da un albero.
C’è un altro episodio che è interessante ricordare. Un sarto del villaggio di Eyam, nel Derbyshire, tornando da Londra dove era stato per acquistare del cotone, portò nel piccolo paese il contagio che rapidamente si diffuse. Il primo a morire fu proprio lui. La popolazione prese la drastica ed eroica decisione di isolarsi dal resto del mondo, cosa che non salvò gli abitanti, ma permise di circoscrivere il contagio. La quarantena durò quattordici mesi durante i quali gli abitanti dei paesi vicini si impegnarono a portare cibo ed acqua che lasciavano ai limiti del villaggio. Dei 350 abitanti di Eyam, 260 morirono, ma il morbo non si diffuse.
Nell’autunno del 1665, l’epidemia cominciò a diminuire, ma il pericolo non era ancora cessato e continuerà per un anno, fino al settembre del 1666 quando un grande incendio, partito per caso dalla bottega di un fornaio e non circoscritto subito per noncuranza delle autorità, distrusse quasi tutta la città di Londra. Le fiamme misero così fine alla grande pestilenza.

Il grande incendio di Londra – 1666
Il “Diario dell’anno della peste” di Daniel Defoe

Daniel Defoe
Quando tutto questo accadeva, Daniel Defoe era un bambino di 5 anni e abitava con la sua famiglia a Stoke Newngton, un borgo della cerchia di Londra dove il padre esercitava la professione di mercante.
Carattere dinamico e poliedrico, Defoe ebbe una vita movimentata e fece molte esperienze: commerciante, imprenditore, giornalista, saggista e poi scrittore, si occupò anche di economia e di politica. Conobbe il carcere per bancarotta prima e per le sue idee politiche poi. Per tutta la vita dovette lottare per via delle ristrettezze economiche, ma furono proprio queste che lo spinsero a scrivere e così nacquero i capolavori che conosciamo. Iniziò a scrivere tardi e proprio mentre si trovava in carcere. Tornato in libertà continuò a farlo sempre spinto dalla necessità economica. Scrisse il suo capolavoro “Le avventure di Robinson Crusoe” quando aveva 58 anni. Ne aveva 61 quando, nel 1721, scrisse “Il diario dell’anno della peste”.
Si tratta di un diario immaginario, anche se presentato come autentico, scritto da un personaggio non realmente esistito, ma assolutamente fedele alla realtà dei fatti perché contiene testimonianze storiche e documenti autentici. L’io narrante è un sellaio, non meglio identificato, che allo scoppiare dell’epidemia decide di rimanere in città, nonostante il pericolo, per continuare a curare i suoi affari. Fatalista e profondamente cristiano, si affida alla divina provvidenza, convinto, come molti all’epoca e forse anche lo stesso Defoe, che la causa dell’epidemia fosse dovuta ad una punizione divina per il cattivo comportamento degli uomini.
Accanto al diario personale, più intimo, largo spazio è dato alla descrizione e all’analisi minuziosa e lucida degli avvenimenti e dei comportamenti delle autorità da una parte, non sempre preparate ed efficienti, e della popolazione dall’altra, sofferente e terrorizzata. Alle vicende si aggiungono numerose testimonianze e documenti dell’epoca autentici, come le varie ordinanze emesse dalle autorità per cercare di contenere il contagio, le statistiche, il già citato “Bills of Mortality” che riportava in dettaglio gli elenchi dei deceduti e la “Loimologia,” un accurato resoconto dei fatti redatto nel 1672 dal dottor Nathaniel Hodges, uno dei pochi medici che non abbandonarono la città, il quale si prodigò per gli ammalati soprattutto i più poveri con grande dedizione.
A buona ragione il Diario può essere definito allo stesso tempo un romanzo e un documentario: un’ opera che evidenzia quindi la duplice personalità di Defoe, lo scrittore e il giornalista.